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VITÀBBIA
s.f.
Vitalba (ved. supra vezzadro). Il vocabolo è ricordato da Gian Mirola, 23. È assai interessante segnalare quanto riferitoci da fra’ Benedetto Mathieu per il quale questa pianta, da lui identificata nella Clematis vitalba, è da utilizzare con precauzione in cucina perché specie velenosa, al pari delle altre Ranuncolacee, e capace di provocare eruzioni cutanee (al punto che, in passato, i mendicanti erano soliti “usare le foglie fresche della vitalba per procurarsi vistose piaghe e intenerire i cuori)”. Non di meno i getti primaverili si possono consumare a mo’ di asparagi, avendo però l’accortezza di farli cuocere, dato che, cuocendo, perdono i loro principi acri e tossici. Sulla scorta del fatto che i rametti più giovani di tale pianta altro non sarebbero che il vezzadro utilizzato per “svezzare i vitelli dal latte ed abituarli a mangiare l’erba” cfr. Gian Mirola, loc. ult. cit.; fra’ Benedetto Mathieu ritiene però che con il termine vitabbia si possa alludere, “più che alla clematis vitalba, all’humulus lupulus, assai simile a quella ed egualmente diffuso in Garfagnana, i cui turioni giovani sono più dolci dei getti della vitalba”.