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CÀGIO
s.m.
Formaggio, cacio. Il vocabolo – che, unitamente a molti di quelli precedenti con la stessa radice, si differenzia dall’italiano solo per la mutazione fonetica della . in . – non può ritenersi squisitamente garfagnino; tuttavia si è creduto di doverlo inserire nella presente compilazione, attesa la sua diffusione e, soprattutto, il particolare significato che esso ha tra la gente della Garfagnana, per la quale cagio è, per antonomasia, il formaggio prodotto in famiglia con il latte delle pecore e delle mucche della stalla, fatto stagionare in appositi stampi alti e tondi (ved. infra cassin) così da assumere la sua classica forma cilindrica (di sette/otto centimetri di altezza per 20/25 di larghezza). Oggi mucche, pecore e stalle si sono ridotte al lumicino e quasi più nessuno fa il formaggio in casa; non di meno il concetto di cagioè ancora ben vivo tra la nostra gente che impiega detto termine anche per indicare quello comperato, ma ottenuto con il medesimo procedimento artigianale di un tempo (voi un grostellin di cagio?; hai tastato il cagio della Maria? È bon che mmai!). (Pennacchi, I du’ soci, 64: “I nosci cunsijeri / cul noscio latte, invece di fa’ il cagio / ci fottino per ben…”). Ovviamente gli altri formaggi non vengono indicati con questa espressione, riservata a quello garfagnino, ma con il loro nome tipico (‘parmigiano, gorgonzola, stracchino, gruviera’ ecc.). Dal lat. caseus (Borgonovo-Torelli, 61)derivato, forse, da cohaesus, e questo da cohaerere‘unire, rapprendere’.