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VÉTTA
s.f.
Ramoscello sottile e flessibile, dotato per lo più di una certa consistenza, come un giunco (Pennacchi, Poveracci e signori, 110: “…e per straccali un pezzo di curdin / e quand’e s’arumpeva anco una vetta”). Chiara dunque la differenza rispetto al significato che il vocabolo ha nella lingua italiana, dove per ‘vetta’ si intende la cima di un monte o, con riferimento alle piante (specialmente le conifere), la loro sommità. La vetta rappresentava anche uno strumento per infliggere punizioni corporali ai ragazzi autori di malefatte, come il furto di frutti dai rami degli alberi altrui. In questi casi, ove fossero stati scorti, non era raro il caso che i contadini, per castigarli e farli desistere dal reiterare simili azioni, si ponessero al loro inseguimento, armati di un ramoscello flessibile, ma resistente, una vetta appunto, con cui percuotevano sulle gambe i piccoli ladri, qualora fossero riusciti a raggiungerli. Da qui la parola ha assunto anche il significato traslato di ‘frusta’. In passato, quando anche i maestri potevano far ricorso a punizioni corporali nei confronti dei loro allievi, la vetta costituiva un comune mezzo di correzione (Valiensi, Meditazion, 44: “... erimo in tanti, e ’na maestra sola / ci teneva a bada con la vetta”). Dal lat. vetta ‘nastro’ con successiva evoluzione semantica (Battaglia, XXI, 828).