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CÍCCO
agg. e s.m.
Piccolo, minuto; come sostantivo, ‘bambino’. Pennacchi lo impiega frequentemente (cfr. Ji spicciuli, 17: “Qui, cicco mio, ’un siam abituati / a servì d’i clienti disgraziati” e in molte altre poesie, Mostre di donne, 21; Il miccio e il cunijoro, 25; Il Togno e la stronatica, 58). Pure Bonini fa largo impiego di questo vocabolo anche al femm. (cfr. Tempo passato, 20: “Cipolle e pan, bella mi’ cicca /e la domenica un piatto di fagioli” ed ancora: Bella mi’ farina di neccio, 45; Omo stapile, 64; Nun si po’ più gnancobiastima’, 73). Anche Santini (Carlin e il miccio, 41; Storia vera, 49) e Valiensi (Meditazion, 74; Il cagio, 113) lo impiegano frequentemente. Battaglia, III, 122 lo fa derivare da un lat. ciccum ‘pellicina, membrana sottile’ e quindi, ‘cosa da nulla’ e vi ricollega lo spagn. Chico ‘piccolo, ragazzino’; in alternativa propone un’origine dalla voce infantile cik.